Per qualcuno sono il limbodel sesso, per altri il terzo sesso. C’è chi li chiama pseudoermafroditi e chi per loro ha inventato una malattia, le «alterazioni dello sviluppo sessuale». Strane creature, mescolanze di geni alterati, cromosomi in più o in meno, ormoni in difetto o in eccesso. Senza dubbio persone in bilico fra un’identità maschile e una femminile, nonostante che la medicina cerchi da sempre una risposta «normalizzante» attraverso interventi chirurgici e terapie di vario tipo. Creature rare, ma non rarissime: un bambino su 2000 nasce intersex, ovvero con genitali di un sesso diverso da quello scritto nelle sue cellule, XX per la donna, XY per l’uomo. Altra cosa però dall’ermafrodita, uomo-donna insieme, vera bizzarria della natura che proprio per la sua eccezionalità in tempi antichi veniva assimilato ad un SemiDio (il figlio di Ermes e Afrodite).
Nel cinquanta per cento dei casi (un bambino su 13.500 nati circa) l’ambiguità sessuale alla nascita è dovuta al difetto, su base genetica, di un enzima che attraverso un percorso metabolico alterato provoca un eccesso di testosterone nel corpo del bimbo nel grembo materno. Se questo è femmina l’effetto, disastroso, è la virilizzazione dei genitali: la clitoride si allunga fino a sembrare un pene, la vagina resta piccolissima o rudimentale. Condizione nota come Sindrome adrenogenitale, fin dagli anni Trenta la medicina ha cercato di risolverla col bisturi: asportazione della clitoride-pene prima possibile e plastica della vagina per consentire i rapporti sessuali. Una strada sofferta che rende spesso necessario più di un ritocco nell’età adulta, ma che rasserena i genitori e permette alla bambina di crescere con un’identità «certa». In effetti, ricerche sul vissuto di queste donne diventate adulte sembrerebbe confermare la bontà della strategia radicale.
«Nella mia esperienza l’intervento chirurgico nel primo anno di vita ha dato ottimi risultati» conferma Giuseppe Chiumello, direttore del centro di endocrinologia dell’infanzia e dell’adolescenza dell’istituto San Raffaele di Milano. Ma poi, se vai ad indagare più a fondo sulla vita sessuale di queste persone, scopri che molte non raggiungono l’orgasmo, altre non riescono ad avere una vita sessuale, altre ancora sono bisessuali. Lo hanno messo in evidenza studi condotti in Inghilterra, negli Stati Uniti, ma anche in Italia dall’équipe di Alessandro Cicognani, professore di pediatria all’università di Bologna.
«È inutile negarlo: ci siamo accorti che la correzione precoce dell’ambiguità genitale non normalizza del tutto l’identità sessuale di queste persone — commenta Gianni Bona, endocrinologo pediatra a Novara e Vice Presidente della Società italiana di pediatria —. Il cervello è stato esposto, quanto i genitali, durante la vita nell’utero all’influsso degli ormoni maschili. È come se ci fosse qualcosa di ineliminabilmente virile nel comportamento di queste persone». Allora? Nel mondo anglosassone (molto più che a casa nostra) si sta ripensando la strategia attuata finora. Sarah Creighton e Catherine Minto, ginecologhe dell’University College di Londra che hanno condotto studi sul benessere sessuale di questi soggetti – pubblicati sulla rivista Lancet -, oggi affermano che va comunque rimandata all’età adulta la plastica della vagina, in modo che la donna possa dare un consenso consapevole. Ma mettono anche in dubbio l’opportunità dell’asportazione della clitoride-pene. Pura cosmesi che giova ai genitori, al contesto sociale, e poi? «Resto convinto che un’infanzia con un’identità sessuale incerta abbia effetti disastrosi sullo sviluppo della personalità» puntualizza Bona.
La complessità dell’identità sessuale e di quanto poco se ne sappia è emersa clamorosamente anche dai casi pubblicati di recente sulla rivista americana New England Journal of Medicine da William Reiner, pediatra dell’università Johns Hopkins di Baltimora che ha seguito nel tempo 14 ragazzi maschi (XY) che in seguito ad una malformazione rara e complessa erano nati senza il pene. La strategia di cura è stata quella di femminilizzare i loro genitali e di farli crescere come donne. Ma la maggioranza, arrivata all’adolescenza, ha scelto di vivere come uomo, o come bisessuale. «Quando c’è quella maledetta Y — afferma ora Reiner — non è proprio il caso di forzare la natura verso la femminilità». Reiner avrà ragione, ma la natura ci mette di fronte ad un altro scherzo dove il cromosoma Y non sembra giocare un ruolo così impressionante. È la sindrome di Morris (un caso su 50.000 nati), dal nome del ginecologo americano che per primo la inquadrò nel 1953: uomini a tutti gli effetti (XY), quindi con i testicoli, ma il cui organismo per un difetto genetico è insensibile agli effetti degli androgeni. La conseguenza è che alla nascita non sono presenti i caratteri sessuali comandati da questi ormoni: manca il pene e l’aspetto dei genitali è femminile, con una piccola vagina. Inganno perfetto tanto che questi uomini in corpo di donna vengono di solito identificati (l’ecografia evidenzia i testicoli) solo all’adolescenza quando si cerca di capire perché non compaiono le mestruazioni. Cominciano così gli accertamenti che scoprono l’identità maschile.
«Scoperta che può sortire effetti drammatici — interviene Chiumello —. Ricordo quindici anni fa il caso di una ragazza milanese che si suicidò buttandosi dalla finestra dell’ospedale quando seppe di essere affetta dalla sindrome di Morris». Fortunatamente in molti casi la storia è a lieto fine: queste donne-uomo spesso sono alte, slanciate, con seni e fianchi femminei (il testicolo produce piccole quantità di estrogeni) e una pelle bellissima (manca l’effetto negativo del testosterone). Una volta superato il trauma della scoperta, conducono una vita normale sotto il profilo sessuale (anche se la vagina deve essere dilatata) e relazionale; hanno una vita sentimentale, spesso si sposano e adottano bambini. Si dice che fra le modelle ci sia una quota non indifferente di persone con sindrome di Morris. A questo punto viene da chiedersi dove stia la chiave biologica essenziale della femminilità.
Fonte: http://www.corriere.it