La demenza è una condizione patologica neurodegenerativa caratterizzata da una progressiva compromissione delle funzioni cognitive superiori, quali il pensiero logico astratto e la memoria.
Aldilà delle chiare e drammatiche implicazioni individuali e familiari, data la conseguente condizione di disabilità e dipendenza, essa rappresenta un carico socio-economico non trascurabile, dato che colpisce oltre dieci milioni di persone in tutto il continente europeo (stima destinata addirittura a raddoppiare nel corso del prossimo decennio).
Ad oggi, purtroppo, non esiste una vera e propria terapia: questo è particolarmente vero nel caso dell’Alzheimer, che da solo rappresenta oltre tre casi su quattro di deterioramento cognitivo.
Nonostante la ricerca, i progressi in termini di terapia farmacologica sono stati molto timidi. Anche la recente approvazione da parte dell’Agenzia del Farmaco Americana (la FDA) del farmaco “aducanumab” è stata accolta un po’ in sordina, considerando anche la sua travagliata storia e i trial contrastanti.
Per tale motivo, e per la possibilità di insorgenza di effetti collaterali con i farmaci a disposizione, oggi non di rado ci si concentra sulle terapie non farmacologiche, ovvero su tutti quegli atti terapeutici che non prevedono la somministrazione di un farmaco.
Tra queste vale la pena di ricordare l’attività fisica adattata e gli esercizi cognitivi, che hanno la capacità di ridurre la sintomatologia cognitiva, la dipendenza, la disabilità motoria, la terapia della bambola (di cui abbiamo parlato più volte), l’ambiente arricchito di stimoli, l’approccio conversazionale e molti altri.
Questi interventi sono tanto più efficaci quanto più precocemente vengono messi in atto: ecco perchè è importante diffondere la cultura della diagnosi precoce, invitando la popolazione (e i medici curanti) a non sottovalutare anche i più piccoli segni di deterioramento o, peggio ancora, a considerarli parte del normale invecchiamento ed a sottoporsi ad uno screening neuropsicologico, esattamente come ci si sottopone, annualmente, ad esami ed analisi di routine, per verificare il benessere ed il corretto funzionamento del cervello, oltre che del cuore, della vista, dell’udito, della pressione, della glicemia eccetera.
E proprio nell’ambito delle terapie non farmacologiche, le cosiddette tecnologie eXtended Reality (XR) stanno sempre più prendendo piede in qualità di trattamenti innovativi.
La realtà virtuale e aumentata hanno difatti il grosso vantaggio di poter creare ambienti dove l’operatore ha il pieno controllo di tutte le variabili, permettendo al paziente di effettuare una riabilitazione in un ambiente “ecologico” e quanto più naturale possibile.
La possibilità di generare feedback in tempo reale garantisce un monitoraggio continuo delle attività, con misurazioni e analisi dei dati effettuabili anche a posteriori.
Infine, quale ultimo ma non trascurabile elemento, le sedute in realtà virtuale possono rendere l’attività riabilitativa più divertente, coinvolgente e motivante, cosa che a lungo termine determina una migliore aderenza al piano terapeutico personalizzato.
Al giorno d’oggi, l’impiego di dispositivi a costi contenuti (come l’Oculus Quest) permette una diffusione capillare di questo tipo di programmi riabilitativi.
Tali dispositivi permettono di interagire con applicazioni sufficientemente elaborate da garantire un adeguato “senso di presenza” (Sense of Presence, o SOP); l’utilizzatore avrà l’impressione di essere in un’altra realtà, come nel caso del progetto inglese “The Wayback”, il quale ha puntato a suscitare emozioni positive attraverso veri e propri “viaggi nel tempo” ricreati in realtà virtuale.
È così che Elspeth, 79 anni e affetta da demenza, ha potuto rivivere le musiche e l’atmosfera associate all’evento dell’incoronazione della Regina Elisabetta II, il 2 giugno 1953, quando era soltanto adolescente.
La signora ha rievocato vecchi ricordi e trascorso momenti piacevoli, utilizzando semplicemente un’app installata sullo smartphone e un paio di occhialini 3D. Ciò significa che la strada intrapresa è percorribile anche su larga scala, senza necessità di attrezzature particolarmente costose o ingombranti.
Lo step successivo sarà la ricerca di soluzioni a domicilio: qualcosa grazie a cui il paziente possa continuare a esercitarsi come un’applicazione mobile per smartphone e già iniziano a diffondersi programmi di realtà virtuale da utilizzare in casa per potenziare la propria memoria.
Uno psicologo che desideri lavorare con l’anziano e la demenza deve sapere molte cose e, soprattutto, deve essere pronto a mettere in campo strategie multiple per poter approcciare la persona sotto diversi punti di vista, arricchendo la propria “valigetta degli attrezzi” con strumenti variegati, mai banali, sostenuti dalla ricerca scientifica e adattabili a ciascuna persona, sulla base delle capacità cognitive residue.
Il benessere diventa allora l’obiettivo da raggiungere e, perché no, facendosi aiutare dalla realtà virtuale la strada per arrivarci potrebbe non essere troppo lunga da percorrere.
Articolo scritto dalla dott.ssa Annapaola Prestia, docente nel corso “L’intervento psicologico nel lavoro con l’anziano”, organizzato da Obiettivo Psicologia.
Leggi sull’argomento:
- Terapia della bambola nel paziente con demenza
- Come valutare la demenza…
- Qualità della vita nei pazienti in RSA
Bibliografia
La Trofa F. La realtà virtuale e i nuovi approcci terapeutici digitali contro deficit cognitivo e demenza. Tech4Future 2021