Un nuovo studio reso pubblico in questi giorni offre una tecnica potenzialmente predittiva di come gli individui potrebbero comportarsi durante un episodio psicotico.
Lo studio, pubblicato sull’ultimo numero della rivista ”The Journal of Neuroscience” correla l’attività del cervello dei partecipanti in buono stato di salute a come essi potrebbero comportarsi in seguito all’esposizione a ketamina (un farmaco che induce psicosi e riproduce i sintomi della schizofrenia). I risultati consentirebbero di spiegare per quale motivo i sintomi di schizofrenia varino così tanto da persona a persona e, in prospettiva, potrebbero consentire di arrivare a percorsi di diagnosi e di cura personalizzati.
"Nella schizofrenia, non è chiara la variabilità dei sintomi: perché un individuo soffre in modo predominante di percezioni bizzarre e spiacevoli, mentre altri sono ossessionati da pensieri persecutori, mentre altri ancora trovano difficoltà nel mettere ordine nei propri pensieri e motivazioni?”, si è chiesto Paul Fletcher dell’Università di Cambridge, autore senior.
Fletcher e colleghi ipotizzano che questi differenti sintomi abbiano diverse origini biologiche, ciascuna delle quali può produrre un danno ai processi cognitivi normali. Secondo gli studiosi, le differenze nel funzionamento cognitivo normale – cioè degli schemi unici di attività mentale di ciascuno di noi – potrebbero indicare quali processi siano maggiormente a rischio di compromissione durante una psicosi o una schizofrenia indotte farmacologicamente.
La ketamina è un analgesico di cui spesso si abusa che induce sintomi sia positivi sia negativi. Come nella schizofrenia, gli effetti della ketamina sono variabili e imprevedibili. La sostanza infatti funziona bloccando i recettori per il neurotrasmettitore glutammato, che è coinvolto anche nella schizofrenia.
Utilizzando la tecnica di imaging a risonanza magnetica funzionale (fMRI), i ricercatori hanno osservato 15 persone a cui era stata somministrata o ketamina o placebo, mentre dovevano effettuare una serie di compiti cognitivi. I ricercatori hanno poi valutato il comportamento dei partecipanti utilizzando diverse scale psichiatriche. Un mese più tardi, gli stessi volontari sono tornati a ripetere i test ma con farmaci invertiti.
I ricercatori hanno trovato che l’aumento dell’attività cerebrale riscontrata nel corso di alcuni compiti nella condizione placebo poteva predire il comportamento sotto ketamina.
I partecipanti che mostravano più attività nei lobi frontali (coinvolti nelle funzioni esecutive) e temporali (importanti per il linguaggio, l’ascolto e la memoria) mentre immaginavano suoni e voci nella condizione placebo, sotto ketamina vivevano con più probabilità strane percezioni. Altri soggetti che mostravano un aumento di attività nelle stesse regioni mentre cercavano di completare semplici frasi avevano, con più probabilità, pensieri disorganizzati quando esposti alla ketamina.
Per contro, i volontari che mostravano un incremento della risposta frontale nel corso di un compito attentivo nella condizione placebo mostravano anche una maggiore vulnerabilità ai sintomi negativi sotto ketamina, così come chi mostrava un aumento della risposta nelle regioni frontali, del talamo e del nucleo caudato, aree cerebrali collegate a formare un circuito importante nelle funzioni esecutive e motorie.
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