Sarà pur vero che "educare istruendo" significa diventare "complici di possibilità trascendenti" con i ragazzi che si hanno di fronte. Ma sta diventando maledettamente difficile. E poiché l'impresa educativa è divenuta difficile, il mondo adulto ha messo in atto varie strategie di fuga dalle proprie responsabilità.
C'è chi ripropone la retorica della "missione", chi esalta la geometrica potenza di nuove e più severe "regole" e propone l'ennesimo aggiornamento del Corpus giuridico-amministrativo dell'istruzione, chi affida alle cure di psicologi e medici una faccenda che è in primo luogo di competenza degli insegnanti e della scuola.
E' quest'ultima tendenza che viene documentata da una ricerca, condotta all'Università di Padova sui giudizi dei docenti della scuola di base, sotto la supervisione della prof.ssa Daniela Lucangeli. Riguarda i cambiamenti del lessico tra gli anni 1997 e 2007, che la sottostante tabella sinottica visualizza.
Anno 1997 Anno 2007
si distrae, non sta attento ha un disturbo dell'attenzione
legge stentatamente è dislessico
non è portato alla matematica è discalculico
non sta mai fermo è iperattivo
dimentica subito quel che studia ha un deficit di memoria
ha la testa tra le nuvole ha un disturbo dell'attenzione
non ha voglia è demotivato
è timido, è chiuso è un po' autistico
non mi ascolta, mi sfida è bullismo
ecc… ecc…
Le differenze di lessico evocate per descrivere lo stesso fenomeno segnalano una diversità radicale di approccio degli insegnanti (o li chiameremo "operatori"?). Nella colonna del 1997 la descrizione è fatta dal punto di vista di una relazione segnata da difficoltà, ma pur sempre circoscritta all'ambito pedagogico-didattico.
Nella colonna del 2007 l 'approccio è già stato collocato al di fuori della relazione educativa. E' divenuta una relazione clinica, tra un adulto sano e un ragazzo malato. E poiché l'adulto non dispone delle competenze necessarie per affrontare la patologia, è ai clinici del corpo o della mente che il ragazzo viene affidato.
Perché sta accadendo una tale deriva clinica dell'educazione? E' fondata su basi scientifiche la crescente "clinicizzazione"?
Partiamo dall'ultimo interrogativo. La professoressa Lucangeli, che è ordinario di Psicologia dello sviluppo e dell'educazione all'Università di Padova e Direttore scientifico del Centro per le difficoltà di apprendimento della Fondazione Edimar, sostiene che "difficoltà di apprendimento" è espressione che copre genericamente troppe cose e fornisce troppi alibi. Perciò si tratta di andare a dipanare pazientemente dei fili, che appartengono almeno a due gomitoli diversi: quello cognitivo e quello emotivo-motivazionale.
Intanto, è dal primo che provengono i fili dei disturbi veri e propri dell'apprendimento. La ricerca dice che i disturbi dell'apprendimento sono a base neurofisiologica, dipendono da deficit neurofunzionali. Quanti bambini ne soffrono? Circa il 5% della popolazione. In questo caso, l'intervento specialistico esterno extra-educativo è necessario.
La scuola può aiutare, ma non può risolvere. Sul piano strettamente cognitivo invece il 95% dei ragazzi può farcela. Eppure i dati nazionali sulle difficoltà di apprendimento sono impressionanti: a seconda dei territori, variano dal 25% fino al 58% degli adolescenti. Costoro non hanno nessuna base neurofisiologica di tipo patologico. Se la base è patologica, non possono apprendere. Ma se sono neurofiosologicamente normali o, come oggi si dice in burocratese, "normo-dotati", perché soffrono di disturbi dell'apprendimento?
Occorre andare a vedere che cosa succede nell'area emotivo-motivazionale. Perché la sfida cognitiva si accenda, è necessario che venga avvolta da un ambiente emotivo e motivazionale favorevole. Anche i profani sono al corrente del fatto che l'emisfero cerebrale sinistro è sfruttabile al massimo delle sue potenzialità solo se anche l'emisfero destro – quello preposto alle condizioni emotive – entra in gioco. Che questo accada dipende innanzitutto dagli insegnanti e contestualmente dalla scuola, dalla sua organizzazione didattica, dal numero di materie e di ore, dal tempo-scuola e dalle sue relazioni con il tempo-vita.
Un ragazzo impara se tocca con mano di giorno in giorno che le sue competenze crescono e pertanto che il suo Io cresce ed è ogni giorno più forte nel mondo. Il che è come dire: se il ragazzo avverte che l'insegnante per lui è un facilitatore di apprendimenti, è un collaboratore motivato nel processo di costruzione del Sé. Se lo percepisce come qualcuno interno alla propria avventura umana, allora il processo di apprendimento fiorisce. Pertanto la prima condizione perché un insegnante di matematica sia un educatore – cioè abbia un significato per il ragazzo che ha di fronte – è che conosca la matematica e la sappia insegnare: sappia far crescere le competenze in matematica.
Non basta saper istruire
La relazione tra la funzione educazione e la funzione istruzione nell'insegnante non è estrinseca: egli partecipa del processo di costruzione dell'altro solo se porta i propri mattoni di competenze. La funzione educativa si incarna in quella "istruttiva". Fuori da questa relazione incarnata, c'è solo la retorica della partecipazione al destino dell'altro. La modalità educativa essenziale per un docente non è essere amico, padre, consigliere, madre, confidente: è essere professore di matematica, di storia, di inglese, di scienze ecc… competente e motivato alla sua professione.
Il professore mi deve far sentire un interlocutore credibile, mi deve far sentire intelligente, mi deve chiamare in gioco. Se mi dà competenze lo ascolto, se parla d'altro, se si limita a farmi prediche sulla vita e sul destino, non lo ascolto. Se l'insegnante mi fornisce soltanto informazioni e va a valutare quante io ne ho trattenute, io non lo ascolto.
Se mi aiuta a far crescere la mia intelligenza del mondo e perciò a entrare in contatto con la realtà e perciò a crescere in sapienza e trovare il meglio di me, allora lo ascolto. Ma lo può fare solo se è competente! E se è competente, allora può essere anche amico, padre, madre, compagno nell'avventura della vita.
Ora, secondo una recente ricerca Iard, il 40% degli insegnanti è percepito dai propri alunni come impreparato. Imprecisa o no che sia tale percezione, sappiamo già che il 40% degli insegnanti non è vissuto come educatore dai propri ragazzi. Questo dato ha una qualche relazione con il fatto che il 38% dei quindicenni confessa che "la scuola è l'ultimo posto dove vorrei stare"?
Intanto una cosa è certa: malattie e disturbi dell'apprendimento sono anche malattie e "disturbi" dell'insegnamento. Le cause: un deficit di competenza professionale, un deficit di motivazione professionale. E una discreta percentuale di burn-out. Ma questa è un'altra storia.
Articolo tratto da: http://www.orizzontescuola.it/